Dalla disabilità alla accessibilità: perché devono essere riconosciuti i diritti e i doveri culturali

Intervento presentato sabato 11 maggio al convegno “Accessibilità in cammino: le nuove frontiere del turismo”, tenutosi al Gran Teatro Puccini, a Torre del Lago Pucci.  Organizzato dalla Fondazione  Catarsini , il convegno ha affrontato importanti tematiche, strategie d’intervento e proposte applicative volte a rendere le  proposte turistiche il più possibile accessibili alle persone con disabilità permanenti o transitorie, sensoriali, motorie, intellettive e psichiche.

di Monica Amari, presidente del Movimento per il rispetto dei diritti e dei doveri culturali

L’intervento vuole presentare  i punti di tangenza tra due temi apparentemente così lontani quali la disabilità e  il   riconoscimento dei diritti e dei doveri culturali come categorie giuridiche autonome. E ipotizzare  cosa potrebbe cambiare, nell’ambito della disabilità, se vi fosse una maggiore interazione con i diritti e i doveri culturali. Un’ipotesi che si basa  sull’identificazione  tre parole chiavi, comuni alle due tematiche: persona, diversità e dignità.

Prima di definire cosa si intende per disabilità e identificare quali sono i diritti culturali può essere utile, per capire la portata della realtà di cui stiamo parlando,  dare un quadro di riferimento con l’aiuto di alcune cifre.   La disabilità coinvolge il 20% della popolazione globale.  In Europa coinvolge il 27% degli over 16 anni – 101 milioni di persone-  ma considerando la fascia oltre i 65 anni di età si arriva al 52.2%. Se la percentuale più elevata si registra in Lettonia (38.5%), in Italia si raggiunge il 22.7%. Le  donne sono in numero maggiore rispetto agli uomini in tutti gli Stati membri, il 29.5% contro il 24.4%, ma molte persone con disabilità sfuggono ancora alle statistiche e incontrano ostacoli nell’accedere all’assistenza sanitaria, all’istruzione, al lavoro, alle attività per il tempo libero e nel partecipare alla vita politica. Più della metà delle persone disabili si sente discriminata[1].

In Italia le persone con disabilità sono quasi 13 milioni, di cui almeno 3,1 milioni presentano una disabilità impegnativa.  Alla metà  – 7,5 milioni –  è stata erogata una pensione o una indennità. Questo significa che una famiglia su 10 ha al proprio interno un componente con disabilità che sia un anziano non autosufficiente o un bambino, un ragazzo o un adulto che ha bisogno di assistenza o cure quotidiane.

Ma cosa si intende per disabilità? La Convenzione ONU 2006 sui diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia dalla legge 18 del 3 marzo 2009, indica la disabilità come “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. La disabilità può essere considerata, dunque, come il risultato di un rapporto sfavorevole tra la persona con particolari condizioni di salute e l’ambiente che la circonda. Di conseguenza obiettivo comune delle politiche che riguardano la disabilità deve essere quello di modellare un ambiente più  favorevole attorno alla persona. Come?

Per identificare le azioni necessarie  in primis occorre considerare come centrale  la parola  “persona”,  sia per  il tema della disabilità che per acquisire la consapevolezza dell’esistenza  dei diritti e dei doveri diritti culturali. Diritti che  mettono al centro la persona e non, come spesso si crede quando si parla di “cultura”, il patrimonio culturale materiale e immateriale.

Recita infatti l’art 22 della  Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 1948, Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità. I diritti culturali, però, all’epoca  non sono stati recepiti come una categoria giuridica autonoma all’interno delle Carte costituzionali e del sistema normativo della maggioranza dei paesi europei. Di conseguenza non sono stati percepiti dalla cittadinanza e dai decision maker come oggetto di rispetto e di tutela al pari degli altri diritti umani, quali  quelli economici e sociali, civili e politici.

Peraltro, in un parallelismo con i diritti culturali, è un documento di portata universale ad adottare per la prima volta adotta il termine  “persona con disabilità”.  La Dichiarazione sui diritti delle persone disabili formulata dall’ONU nel 1975  sancisce  il diritto dei disabili ad essere trattati in maniera egualitaria rispetto agli altri. Il primo punto del documento definisce  disabile  «qualsiasi persona impossibilitata ad assicurare da sé, in tutto o in parte, le necessità di una normale vita individuale e/o sociale, a causa di una deficienza, congenita o meno, delle sue condizioni fisiche, o capacità mentali». L’importanza di questa definizione è data dal fatto che sancisce  il passaggio finale di un percorso che prima di arrivare a definirle “persone con disabilità” le descriveva prima come  “invalidi”  e poi come  “portatori di handicap”.

Arrivare, perciò,  a percepire la centralità della persona sia nell’ambito della disabilità che in quello dei diritti culturali è stato un obiettivo difficile da raggiungere che accomuna le due tematiche e ne fa intravedere il primo punto di tangenza. Dare centralità alla persona descrivendo la disabilità come un rapporto sfavorevole con l’ambiente circostante e non in termini di deficit della persona, come ricorderà  la successiva  Dichiarazione ONU del 2006, ha fatto si che   nel corso tempo si siano modificati anche i parametri di valutazione e gli strumenti di classificazione.  Nel 2001 l’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva elaborato un nuovo strumento per descrivere e misurare la salute e la disabilità della popolazione denominato con l’acronimo. ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute) L’ICF consente di cogliere, descrivere e classificare ciò che può verificarsi in associazione a una condizione di salute, cioè le «compromissioni» della persona o, per utilizzare un vocabolo neutro, il suo «funzionamento». Non è una classificazione che riguarda soltanto le condizioni di persone affette da particolari anomalie fisiche o mentali, ma è applicabile a qualsiasi persona che si trovi in qualunque condizione di salute, dove vi sia la necessità di valutarne lo stato a livello corporeo, personale o sociale. Si tratta inoltre di una vera e propria rivoluzione della concettualizzazione della disabilità, che tiene conto per la prima volta di fattori contestuali e ambientali  che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità.

Attraverso l’ICF si vuole quindi descrivere non le persone, ma le loro situazioni di vita quotidiana in relazione al loro contesto ambientale e sottolineare l’importanza dell’ l’individuo non solo come persona avente malattie o disabilità, ma soprattutto evidenziarne l’unicità e la globalità. Quella stessa unicità e diversità delle persone che sono il presupposto quando si parla di riconoscimento dei  diritti e doveri culturali.

Come si è detto i diritti culturali, già riconosciuti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo nel 1948, non vennero recepiti all’interno delle Costituzioni europee. Volendo indagarne le motivazioni si scopre che alle radici di  questa colpevole disattenzione  vi è proprio il mancato riconoscimento del concetto di diversità, a differenza di quanto aveva sottolineato Julien Huxley primo direttore generale  dell’UNESCO che, per la prima volta,  aveva abbinato al concetto di dignità alla cultura e all’educazione. Nel delineare le linee strategiche della nuova organizzazione internazionale Huxley  nel 1945, tre anni prima che venisse ratificata la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, aveva analizzato  il ruolo della cultura all’interno di un processo evolutivo sociale paragonandolo ai processi evolutivi  biologici.  Nell’evidenziare come le diversità sono facce di una stessa medaglia indicherà nel loro  riconoscimento un presupposto necessario per mantenere la pace. Le considerazioni formulate da Huxley, di formazione biologo e nipote di Thomas Huxley – l’amico e mecenate di Charles Darwin- , trovarono una forte opposizione tra gli Stati fondatori dell’UNESCO per i quali, secondo i commentatori dell’epoca, l’UNESCO doveva essere uno strumento per imporre la  cultura, le visioni e i valori dei paesi usciti vincitori dalla guerra. Opposizione che non rientrò al punto tale da costringere Huxley nel 1947, ad appena due anni dalla nomina, alle dimissioni. Il suo allontanamento ebbe come immediata conseguenza l’abbandono di una visione della ricomposizione – oggi  verrebbe definito accettazione – delle diversità culturali ed influì, probabilmente, su una mancata definizione , e dunque sull’assenza di un catalogo, dei diritti culturali all’interno della stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Come per la disabilità diritti culturali dovranno affrontare un  cammino impervio  per essere identificati e come per la disabilità  anche per i diritti culturali il loro riconoscimento  avverrà in ambito internazionale.

L’importanza della dimensione  internazionale nell’ambito dei diritti umani e della disabilità, è data dal fatto che le disposizioni e i documenti elaborati dalle istituzioni internazionali sono portatori  di principi ampiamente condivisi dalla comunità internazionale nel suo insieme, al di là  di specifiche ideologie o credi e al di là dei confini di ciascun Stato. Sono protocolli standard, negoziati per lungo tempo, per i quali i rappresentanti dei paesi e gli studiosi che rappresentano la comunità internazionale sono stati chiamati per contribuirne alla stesura. Ed è  questo il motivo per cui, oggi, questi documenti costituiscono un punto di riferimento imprescindibile.

Con modalità simili  a quelle utilizzate per arrivare a un approccio corretto nei confronti  della disabilità,  i diritti culturali  hanno   dovuto affrontare un lungo percorso per arrivare al loro riconoscimento. Una lunga marcia avvenuta per tappe. Una di queste è rappresentata dalla  “Conferenza mondiale sulle politiche culturali”, organizzata dall’UNESCO a Mexico City nel 1982 quando, con  il riconoscimento dell’importanza della cultura per lo sviluppo sostenibile,  il tema della “diversità culturale”  non è stato più letto come un ostacolo al concetto di “universalità” dei diritti umani. I delegati dei paesi membri  vollero sottolineare  il diritto alla differenza e l’importanza di un mutuo rispetto per tutte le  altre culture, comprese quelle minoritarie, ed iniziarono a delineare  quei fondamenti che serviranno a formalizzare, nei successivi vent’anni,  il concetto di  “identità culturale”.

Ecco allora che il concetto di diversità, che caratterizza  sia il tema della  disabilità  che quello dei diritti culturali, offre un secondo punto di tangenza.

Gianluca Famiglietti  sottolinea come  «La  difficoltà ad accettare la differenza sembra non solo essere appannaggio della cultura occidentale: dalla soppressione dei gemelli in molte culture tradizionali africane (paradossalmente il rifiuto della differenza nella più assoluta eguaglianza) ai sacrifici umani (Inca) fino alle diverse forme di segregazione e riduzione in schiavitù del presunto “diverso” (Mauritania, culture dell’America Centrale), il rigetto della differenza e la gerarchizzazione della diversità si sono sempre intersecate con i conflitti e lotte per l’ottenimento o il controllo del potere politico, della forza militare, dell’autorità religiosa, della proprietà e, quindi, della ricchezza, I genocidi in Cambogia e nella regione dei Grandi Laghi), le molteplici violazioni dei diritti umani, le pulizie etniche e le sofferenze inferte alle minoranze hanno contribuito a dissipare un certo romanticismo “terzo mondista” che à la Rousseau, tendeva a vedere nel “buon selvaggio”, un essere non contaminato dalla avidità e dalla violenza occidentali. Intendere la tolleranza come il riconoscimento delle differenze culturali non implica l’accettazione supina ed illimitata di tutte le culture e all’interno di ognuna, la giustificazione di tutte le tradizioni. La “tolleranza multiculturale” trova il suo limite nella difesa dei diritti individuali, in primis nel diritto all’eguale libertà e all’eguale rispetto di ogni individuo[2]».

Ed è pensando quanto sia centrale il rispetto della persona  che si può capire l’importanza della  Dichiarazione di Friburgo così denominata per essere stata realizzata da un gruppo di studiosi organizzato e coordinato dall’Istituto interdisciplinare di etica e dei diritti dell’uomo dell’omonima università svizzera. Il testo, dal titolo I diritti culturali, raccoglie ed esplicita diritti già riconosciuti e disseminati in numerosi documenti relativi ai diritti umani. L’averli riuniti in un unico documento è stato considerato necessario dagli studiosi per garantirne la visibilità e la coerenza, al fine di favorirne l’effettività e chiederne in modo più incisivo il riconoscimento e il rispetto all’interno dei singoli Stati[3]. Presentata ufficialmente, in collaborazione con l’UNESCO, al Palazzo delle Nazioni a Ginevra nel 2007, la Dichiarazione riunisce concettualmente in unico complesso di disposizioni i diritti culturali previsti dai differenti strumenti di diritto internazionale. Composta da   dodici articoli, il documento  riunisce in unico corpus il  diritto dell’individuo all’identità culturale, al patrimonio culturale materiale e immateriale, a riconoscersi in comunità culturali, alla possibilità di accedere e di partecipare alla vita culturale, alla formazione, all’informazione, alla comunicazione e alla cooperazione in termini culturali. In una nota gli autori spiegano i motivi che hanno portato alla pubblicazione di un nuovo testo sui diritti dell’uomo, ribadendo nella premessa  che  «di fronte alla persistenza delle violazioni, al fatto che le attuali e potenziali guerre trovano in gran parte i loro germi nelle violazioni dei diritti culturali, che numerose strategie di sviluppo si sono rivelate inadeguate per l’ignoranza di questi stessi diritti, constatiamo che l’universalità e l’indivisibilità dei diritti dell’uomo risentono sempre dell’emarginazione dei diritti culturali». La Dichiarazione di Friburgo  dichiara subito la correlazione con il concetto di dignità, altra parola chiave da mettere in correlazione con la disabilità. «I diritti enunciati nella presente Dichiarazione sono essenziali alla dignità umana; per questa ragione fanno parte integrante dei diritti dell’uomo e devono essere interpretati secondo i principi di universalità, indivisibilità e interdipendenza».  E nell’art.2 comma 2,  ribadisce che l’identità culturale risulta essere  «l’insieme dei riferimenti culturali con il quale una persona, sola o in comune, si definisce, si costituisce, comunica e intende essere riconosciuta nella propria dignità».

Dopo il devastante annientamento di massa dell’essere umano, avvenuto nel corso della seconda guerra mondiale dove le persone con disabilità sono stati i primi bersagli e  le prime vittime dei  regimi autoritari e totalitari, la dignità, intesa come diritto/dovere di essere riconosciuti dagli altri e di riconoscere gli altri, si affianca al principio cardine di uguaglianza.  Considerata parola di “alto uso”, la dignità è oggetto di riflessioni a sfondo etico-morale nei pensatori del passato fino a quando non entrerà a far parte, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale  – e ritornano in mente gli omicidi dei disabili-   del lessico giuridico e dei sistemi normativi internazionali e nazionali. Al punto che  come ricorda l’art.22 della  Dichiarazione dei diritti dell’uomo, tutti i diritti umani, e dunque anche quelli culturali, devono farsi strumento per assicurare la dignità e lo sviluppo della personalità umana.

Classificata nel Grande dizionario italiano dell’uso come una parola di “alto uso”, ossia come una di quelle parole che entrano di diritto a far parte del vocabolario di base, usate e comprese dalla maggior parte di coloro che parlano italiano,  la “dignità”, al pari di “cultura” o “sostenibilità”, è uno di quei vocaboli che mantengono un margine ineliminabile di vaghezza e di indeterminatezza. Se il termine, nella natura di aggettivo,  può avere un valore positivo,  “degno di lodi”, o negativo, “degno di critiche”, la parola “dignità” quando viene utilizzata in modo assoluto implica una valutazione positiva. Seguendo le tracce offerte dall’approccio etimologico, sia l’aggettivo che il sostantivo presentano  nel proprio etimo la radice dek che rimanda al significato di “ricevere”. La dignità, nel suo avere, sempre, un’accezione positiva, significa, dunque,  ricevere  attenzione, considerazione, ammirazione, sguardo dell’altro, della collettività. E in questa accezione si ricollega alla parola “rispetto”, nel significato di  re-spicere, di riavere su di sé lo sguardo, l’attenzione dell’altro.

A fare entrare nel lessico politico-giuridico del diritto internazionale e delle carte costituzionali il concetto di dignità sono stati, dunque, gli orrori della seconda guerra mondiale e l’avvento dei totalitarismi, che negando l’esistenza di milioni di individui sono arrivati a pianificarne  lo sterminio. Da qui la necessità, da parte del legislatore, di specificare come il concetto stesso di “identità” deve essere strettamente collegato con quello di “dignità”. Se “identità” significa il diritto e il dovere di dare attenzione a se stessi e alla propria comunità di appartenenza, la dignità  diventa il diritto ad avere attenzione dai singoli e dalle comunità e il dovere di dare attenzione agli altri[4].  L’essere ignorati, il non essere riconosciuti, è già espressione di umiliazione. Ogni individuo ha il diritto di godere di quelle condizioni che facilitano la possibilità di essere riconosciuto dagli altri  e che lo fanno sentire partecipe delle comunità in cui vive,  insegnandogli a riconoscere e rispettare il singolo individuo e la comunità di appartenenza. La lotta contro il bullismo, contro le discriminazioni razziali, contro la povertà, contro le fake news,  sono esempi di azioni politiche in cui si afferma il dovere di rispettare la dignità degli esseri umani, ribadendo il diritto dell’individuo ad esistere,  a  non diventare  invisibile e  a non essere discriminato dai propri simili.

Da qui la necessità di educare la società al riconoscimento dell’altro. «Il senso interiore della dignità cerca riconoscimento. Non basta che io abbia il senso del mio valore se altri non lo riconoscono pubblicamente o, peggio, se mi denigrano o non riconoscono la mia esistenza. L’autostima nasce dal riconoscimento espresso dagli altri. Poiché gli esseri umani per natura ambiscono al riconoscimento, il senso moderno dell’identità evolve rapidamente in politica identitaria, nella quale gli individui pretendono il pubblico riconoscimento del loro lavoro. In questo modo la politica dell’identità abbraccia gran parte delle lotte politiche del mondo contemporaneo, dalle rivoluzioni democratiche ai nuovi movimenti sociali, dal nazionalismo e l’islamismo alla politica negli odierni campus universitari[5]».

Il rispetto, perciò, della dignità umana non sarà il contenuto di uno specifico diritto  fondamentale ma diventerà il principio su cui si baserà il sistema giuridico internazionale e le carte costituzionali novecentesche. A proclamarlo in modo inequivocabile  sono le  parole dell’incipit, del preambolo  della Carta delle Nazioni Unite (1945): «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole […] ».  Diventata “principio” nel dibattito giuridico al pari di quello dell’uguaglianza, la dignità presupposto e fine dei diritti umani viene  menzionata più volte, anche   nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Prima nel conosciutissimo art. 1, «Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti»,  poi quando viene e associata ai diritti economici, sociali e culturali (art.22).

Risultato di questa presa di coscienza deve essere, perciò, la consapevolezza della necessità, da parte degli Stati nazionali, di politiche culturali in grado di assicurare il rispetto dei diritti culturali. Da qui la decisione e la necessità di costituire il  Movimento per il riconoscimento dei diritti e dei doveri culturali per  influire sui decision maker al fine di sviluppare un modello di società contemporanea che rivendichi l’importanza della percezione, il riconoscimento, il rispetto e l’applicazione dei diritti culturali.  Il Movimento si pone, dunque,  come obiettivo di rafforzare la dimensione culturale all’interno della Costituzione chiedendo una legge costituzionale che modifichi: l’articolo 2 quando tratta di doveri e di solidarietà –  La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale e culturale.

E l’articolo 3 quando tratta di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e di allargare il concetto di organizzazione del Paese – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica, sociale e culturale del Paese.

L’ipotesi è che una maggiore coscienza e rispetto nei confronti dei diritti culturali da parte della collettività nazionale nelle sue componenti più varie- istituzioni, imprese, società civile – possa portare alla costruzione di un modello di società capace di affrontare le complessità determinate dalla dimensione globale. E possa non solo  fornire una griglia interpretativa in grado di rispondere alle criticità del presente ma anche identificare e costruire maggiori  interazioni con il tema della disabilità alfine di trovare fondamenta comuni per costruire progetti improntati sul rispetto della disabilità  e sulla tutela dei diritti e dei doveri culturali.

Qualche esempio.

Si potrebbe chiedere l’utilizzo di una comunicazione appropriata, per esempio, visto che se ciò non avvenisse potrebbe essere contemplata una violazione dei diritti umani in quanto ad essere violato sarebbe un diritto culturale come ricorda l’art.22 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, e perciò potrebbe essere sanzionabile a livello internazionale. Il linguaggio, i termini, le parole che usiamo sono fondamentali per capire il livello di civiltà della società. Usare un linguaggio corretto e rispettoso di ogni tipo di condizione è fondamentale sempre, ma ancora di più quando si comunica sulle cosiddette “categorie deboli” o “fragili” (termini non precisi e in qualche modo discriminatori, ma che aiutano nella comprensione di ciò di cui si sta discutendo) che comprendono tutte le persone, i gruppi, le categorie a rischio discriminazione. Dato ormai per scontato che è  fondamentale che sia la persona (bambina/o, ragazza/o, donna/uomo)  ad essere al centro della comunicazione la sua condizione, se è necessario, dovrebbe essere segnalata successivamente. Da qui è importante ricordare come il termine corretto per indicare chi vive in condizione di disabilità è persona con disabilità. Chi, tra i primi,  si è accorto dell’importanza del linguaggio è stato lo sport con il movimento paralimpico e gli eventi internazionali collegati. A partire dagli anni ‘ottanta   sono stati distribuiti, specie a uso di coloro che si occupavano di comunicazione, utilissimi opuscoli di vari Comitato paralimpici (fin dall’edizione di Seul  del 1988 e in particolare a Barcellona nel 1992), che invitavano a utilizzare termini più corretti in modo da evitare discriminazioni proprio a partire dalle parole usate. Si può ricordare  una sola citazione, quella di Phil Craven, già presidente del Comitato paralimpico internazionale dal  2001 al 2017,  rivolta alla stampa   in occasione delle Paralimpiadi del 2012 a Londra: «In queste giornate non usate la parola disabile e la parola disabilità. Qui vedrete solo grandi abilità».

Ma la richiesta di un linguaggio appropriato quando si tratta con il tema della disabilità è solo una delle   situazioni che ricadono all’interno delle tutela dei diritti e dei doveri culturali.  Altre se ne possono individuare come l’assenza di quelle condizioni necessarie per assicurare a tutti secondo il principio di eguaglianza, e dunque anche alle persone con disabilità, la fruizione del patrimonio culturale. O il mancato finanziamento di attività artistiche, da parte del Servizio sanitario nazionale,  che possono aiutare la convivenza con la disabilità. Condizioni ambedue  contemplate nell’ambito del rispetto e del godimento dei  diritti culturali e dunque, nel caso in cui  non venissero soddisfatte, soggette a quelle stesse sanzioni che si applicano quando ci si deve confrontare con  una violazione dei diritti umani. O per parlare di temi legati alla contemporaneità, la richiesta di richiedere classi separate per disabili:  se venisse riconosciuta la dimensione  culturale all’interno dell’art.3 della Costituzione questa proposta  potrebbe essere letta come una violazione  del diritto all’eguaglianza in quanto non verrebbero ad essere offerte in partenza agli individui   le stesse condizioni  per acquisire conoscenza.

L’inclusione è un tema decisivo in tema di diritti, soprattutto di quelli collegati al tema della disabilità. I passi in avanti compiuti sono stati molti e per non tornare  indietro il riconoscimento dei diritti  e dei doveri culturali all’interno della nostra Costituzione appare non  più procrastinabile.

[1]FONTI: Istat, Eurostat, Registro tematico sulla disabilità, MIUR, FISH-Federazione italiana per il superamento dell’handicap, Osservatorio nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane. Cfr. «La più vasta minoranza sociale al mondo» in Comunicare la disabilità   a cura di Antonio Giuseppe Malafarina Claudio Arrigoni Lorenzo Sani, Ordine dei giornalisti, Consiglio nazionale 2024.

[2] G. Famiglietti, Diritti culturali e diritto alla cultura. La voce “cultura” dal campo delle tutele a quello delle tutele, G. Giappichelli, Torino,2010,  pp. 73-74.

[3] Per ricostruire le tappe che hanno  portato il Gruppo di Friburgo ad adottare la Dichiarazione di Friburgo cfr. Meyer-Bish, Bidault, Déclarer les droits culturels: Commentaire de la Déclaration de Fribourg, Zürich-Bruxelles, 2010, I Annexe, p. 141 ss.

[4] Cfr per la ricognizione del lemma dignità Maria Cristina Torchia, “Dignità”, Accademia della Crusca, https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/dignit/7954

[5] Francis Fukuyama, Identity. The Demand for Dignity and the Politics of Resentment, New York, Farrar, Straus and Giroux 2018; [trad. it., Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, Torino, Utet, 2019, p. 24].